I martiri di Cantiglio

di Giuseppe Giupponi  

 

Tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre del 1943 a Cantiglio, un gruppo di cascine abitate solo d’estate ai piedi del Cancervo, si era costituita una banda partigiana.

Ne era comandante il maggiore "Enzo", Vincenzo Aulisio, originario di Foggia e giornalista a Milano, amico di Ferruccio Parri e dirigente di Giustizia e Libertà. Aulisio è un uomo limpido e dai saldi ideali (finirà ucciso a badilate in un lager tedesco), ma non ha la stoffa del capo.

La personalità dominante della formazione diventa così ben presto quella di Giorgio Issel, ex sottotenente di artiglieria già facente parte della "Genova bene", dotato di notevole cultura e soprattutto delle capacità di comando necessarie per dare una prima organizzazione ad alcune decine di uomini di diversa origine e mentalità.

Issel, ebreo nato nel 1919, era imparentato con la famiglia Cima di San Giovanni Bianco. All’indomani dell’8 settembre aveva scelto la strada della resistenza attiva entrando a far parte del gruppo Carenini che operava nel Lecchese. Disperso questo gruppo, nel rastrellamento del 18 ottobre, aveva raggiunto, con alcuni compagni la Valle Brembana, scegliendo appunto Cantiglio per ricostituire la formazione, incoraggiato in questo anche dalla vicinanza e dall’aiuto della famiglia Cima.

Del gruppo facevano parte numerosi altri elementi che ritroveremo nelle vicende della Resistenza bergamasca: Penna Nera, Guglielmo, i fratelli Angiolino e Valentino Quarenghi e Gastone Nulli, un ex tenente del controspionaggio che diverrà comandante della 86^ Brigata Garibaldi e soprattutto il personaggio più discusso delle vicende resistenziali in Valle Brembana.

C’erano poi alcuni ex prigionieri neozelandesi, greci, francesi, inglesi e jugoslavi e una decina di giovani di San Giovanni Bianco. L’armamento consisteva in vecchi fucili mod. 91 e un mitragliatore tipo Breda e assai scarse erano anche le munizioni. L’esistenza della banda non era naturalmente passata inosservata. Già a fine ottobre il Segretario del fascio di San Giovanni Bianco Carlo Galiberti ne aveva informato la Federazione fascista di Bergamo.

Ci fu inoltre un delatore, Luigi Viligiardi, uno sfollato milanese che si era stabilito alla Costa San Gallo il quale, dietro compenso denunciò alla Kommandantur di Bergamo Issel e compagni. Costui verrà poi fucilato alla fine della guerra davanti al cimitero di San Giovanni Bianco.

A fine novembre dunque messi sull’avviso che si stava organizzando un’operazione di rastrellamnento, la maggior parte dei componenti della banda decise di abbandonare Cantiglio, rifugiandosi sul Cancervo e in Valle Taleggio.

A Cantiglio era rimasto solo un piccolo presidio capitanato da Issel che aveva ritenuto improbabile un rastrellamento a breve scadenza, vista l’abbondante nevicata che era caduta in quei giorni rendendo assai disagevoli gli spostamenti in quella zona impervia. Così invece non fu.

La notte tra il 3 e il 4 dicembre un centinaio di militi fascisti e una cinquantina di SS tedesche, al comando del capitano Bussolt, prendono d’assalto Cantiglio da tre diverse direzioni. Una squadra sale dalla mulattiera che proviene dal Ponte del Becco, un secondo gruppo parte dall’Orrido della Val Taleggio, i più numerosi salgono dalla Pianca dove svegliano il parroco don Ugo Gerosa che era in contatto con i partigiani e, sotto la minaccia delle armi, lo costringono a far loro da guida verso Cantiglio assieme a due ragazzi, i cugini Giovanni e Guido Dogadi.

"Ero di turno alla seconda centrale - racconta Giovanni Dogadi - quando un gruppo di tedeschi armati, dopo aver scavalcalo il cancello, si mise a bussare con forza al portone. Aprii e i tedeschi mi intimarono di seguirli per far loro strada verso Cantiglio. Non mi lasciarono nemmeno il tempo di mettermi gli scarponi e dovetti uscire con gli zoccoli. Fatti pochi passi lungo il ripido e sconnesso sentiero coperto di neve, gli zoccoli si ruppero e fui costretto a proseguire a piedi nudi, con continui scivoloni. Arrivati ai prati di Cantiglio, mi fu ordinato di tornare indietro, cosa che feci di corsa. Lungo la discesa, tra uno scivolone e l’altro, mi giunse l’eco dei colpi di mitraglia che si sparavano a Cantiglio"

"Nevicava a dirotto - racconta dal canto suo don Ugo Gerosa - ed erano circa le tre di notte. La neve rendeva arduo il cammino. Legato con una corda perchè non potessi fuggire, cercai con ogni mezzo di dare qualche segnale ai partigiani del nostro arrivo. Già prima, dalla mia canonica, mentre stavano arrivando i fascisti, avevo acceso ripetutamente la luce, malgrado l’oscuramento, nella speranza che qualcuno se ne avvedesse e sospettasse che c’era in corso questa azione. Anche lungo la strada cercai di mettere sull’avviso i partigiani accendendo, col pretesto di fumare, numerosi fiammiferi. Ma tutto fu inutile. Arrivati all’inizio dei prati che si distendono sotto il nucleo delle cascine di Cantiglio, venni liberato e costretto a tornarmene a casa. Così mi fu impossibile fare altri tentativi per avvertire quei poveri sventurati che credo stessero dormendo"

E sicuramente era così. Colti di sorpresa, i partigiani iniziano un disperato tentativo di resistenza, ma ben presto sono sopraffatti dalle soverchianti forze nemiche. Sorpresi con le armi in pugno, vengono trucidati lssel, il francese Raimond Marcel Jabin e il sangiovannese Evaristo Galizzi. (continua)

Gli altri riuscirono a stento a mettersi in salvo, mentre quattro partigiani, catturati e non trovati in possesso di armi, furono risparmiati, per finire poi in un campo di concentramento tedesco.

Jabin, maresciallo aviatore di Fontainebleau, gollista, era un evaso dalla Grumellina e aveva trovato rifugio in un primo momento a Villa d’Almé presso Dami e Mazzolà, unendosi al gruppo di lssel dopo un rastrellamento. Evaristo Galizzi, nato a San Giovanni Bianco nel 1922, era uno dei tanti che avevano preferito la clandestinità piuttosto che entrare nell’esercito della Repubblica Sociale.

Prima di tornare a valle, i rastrellatori saccheggiarono e incendiarono poi tutte le baite e la chiesetta della piccola frazione. L’operazione si concluse nel primo pomeriggio di quel 4 dicembre.

Il giorno dopo il messo comunale di Taleggio, Abramo Bellaviti, salito a Cantiglio per ordine dei carabinieri, vi trovò il corpo dei tre partigiani, abbandonati sopra un mucchio di ghiaia.

Erano crivellati di pallottole e Jabin aveva il ventre squarciato ed il volto segnato da colpi di pugnale.

I tre caduti vennero portati a Pizzino con l’aiuto dei compagni superstiti e là furono sepolti tre giorni dopo, di notte, senza alcuna cerimonia.

I solenni funerali avvennero solo dopo la Liberazione.

Ai tre caduti di Cantiglio è dedicata la piazza principale di San Giovanni Bianco.