SAN GIOVANNI BIANCO e i POETI

 

Il nostro vecchio borgo ispirò nei secoli poeti e narratori. Ad essi è dedicata questa nuova piccola rubrica, che, non seguendo un rigoroso criterio cronologico, citerà brani in prosa e in rima come pungerà vaghezza, o come verranno sott'occhio, al curatore. Il quale è qui ben lungi dal voler fare della storia o della critica letteraria. Si limiterà, invece, a menzionare, insieme coi passi riportati, il nome dei rispettivi autori e ad incorniciare il tutto in una svelta nota.

Egli riterrà ripagata in abbondanza la sua fatica se la stessa potrà riuscire d'una qualche utilità a chi intendesse proseguirla e approfondirla. Ed ora la parola ai vati.

SEBASTIANO MULETTI

Avremmo desiderato aprire con qualcosa di piacevole, che ci lusingasse d'essere sangiovannesi, e invece il primo "aedo" in cui ci siamo imbattuti è questo cotal Sebastiano Muletti, di professione gastaldo (amministratore) dei Corrieri veneti, vissuto nel Settecento. Disse del nostro paese che:

 

<<… è da monti alpestri chiuso,

che sembra messo dentro una cesta;

le strade andando or suso e in giuso

puossi a grand'agio spezzarsi la testa.

Di carozze o letiche non c'è l'uso

come ne' luoghi, e una terraccia è questa,

dov'uom non passa per voglia, o accidente,

con che mi fa viver lietamente.

 

Qui vi son certi casolari fatti

come sarebbon stufaccie, o spedali;

le stanze paion stanze di bigatti,

ovver canili, o stalle d'animali.

  Se ogni cosa narrassi, a tutti patti

direste non le son cose reali.

Questo vi basti, che paion prigioni

con tristo odor, del color de' cartoni".

 

Sentirsi dire, oltre il resto, che i nostri avi vivevamo come i caàlér (bigatti, bachi da seta), beh è proprio grossa. Ma noi, compaesani fratelli popol mio, inghiottiamo sorridendo, come noblesse oblige.

Tra i diritti sanciti - proprio ai tempi in cui vedevano la luce queste ottave, non precisamente ariostesche - v'è quello d'opinione e di stampa. Il Belotti (1), bontà sua, definì il Muletti "satirico-faceto" (ma le virgolette sono sue). Noi anche per il rispetto dovuto al quadrupede inseparabile compagno dei nostri alpini evitiamo di tirar in ballo il nomen-omen (il destino d'una persona è nel suo nome). Diamo invece al detrattore ciò che gli spetta: Giudregio Ferreate. E semplicemente lo pseudonimo con cui egli era noto (si fa per dire) in Arcadia (cioè nei circoli letterari del secol suo), ma suona come un insulto.

E da uno che si fece chiamare a questo modo che cosa pretendiamo?

 

VITTORIO VAGHI

Uomo della "Bassa", il dottor Vittorio Vaghi, cremonese di Casalmaggiore, è da considerarsi a buon diritto "naturalizzato" valbrembanino". Stabilitosi infatti, agli inizi del Novecento, a Piazza Brembana, vi esercitò a lungo la professione medica. Si trasferì poi a Zogno. Amò sinceramente i nostri monti e li cantò in versi di buona fattura. Il sonetto - di sapore carducciano - dedicato al Venturosa, il rupestre massiccio che con il Cancervo chiude a settentrione la verde conca sangiovannese, viene a taglio per la nostra rubrica. Fa parte della pubblicazione "Voce del Brembo" (1914).

"Getta l'eccelse cime il Venturosa

nell' orizzonte, il rude fianco enorme,

alla brezza autunnal, silenziosa

mole che pensa, o che sognando dorme.

 

L'ultimo raggio il sol morente posa

lieve su l'aspre roccie, e fremer l'orme

sembran del bacio suo, come di rosa

petali sparsi in larga pioggia a torme.

 

Rispecchia nel silenzio il terso mare

dell'azzurrino ciel di Val Brembana

le vette che s'adergon come altare,

 

le auguste vette d'ogni verde spoglie

cui non turba giammai l'eco mondana

di nostre bieche lotte e tristi doglie."

 

Bei tempi. Oggi sulle "auguste vette", fra il passo del Grealès e il Basamorti, ci arrivano motociclette e radioline non meno bieche e tristi delle lotte e delle doglie d'antan. In compenso non vi si odono quasi più ciòche delle mandrie al pascolo. E qui mi taccio, con vergognosa fronte per l'intrattenuto rimpianto, che rischia di attirarmi le saette dei fautori del "progresso".

PIETRO RUGGERI DA STABELLO

Pietro Ruggeri è per i Bergamasehi quel che sono rispettivamente il Belli ed il Porta, suoi contemporanei, per i Romani ed i Milanesi: il poeta dialettale per eccellenza, il cui ricordo è tuttora vivo nel cuore della sua gente, essendone stata la voce schietta ed immediata.

Nato a Stabello (oggi frazione di Zogno) nel 1797, si trasferì ragazzo con la famiglia a Bergamo. Fece i primi studi nel collegio Santa Chiara e si diplomò ragioniere. Ma esercitò saltuariamente la professione.

"L'indole sua ricorda Antonio Tiraboschi (1838-1883), il compilatore del dizionario bergamasco-italiano non poteva forse acconciarsi alle cifre ed alle esatte linee d'un libro mastro". Si svolse la sua attività artistica dagli anni Venti agli anni Quaranta del secolo scorso.

La sua Musa è "...öna povra Simuna montagnéra, in pedàgn cört, e mànega d'camìsa", che, come osserva Sereno Locatelli Milesi, "indugia per le strade fuori mano, si sofferma nei crocicchi ad ascoltare le ciarle delle donnette, entra nelle osterie, dove il popolino si raccoglie intorno alle lunghe tavole, centellinando la pinta di vino rubizzo, siede sulle panche nei cortili, sotto la pergola..".

Il Ruggeri, che s'era ridotto ad esercitare un piccolo commercio di quadri e libri vivendo trasandatamente gli ultimi suoi anni, ritornò spesso nella natìa Valle Brernbana: a Piazza, a Lenna, a Zogno, a San Giovanni Bianco ed in particolare a Fuipiano, ospite dei Cavagnis. Presso questa signorile famiglia trovò riparo, nel 1848, quando - rientrati gli Austriaci a Bergamo - egli ne temeva la rappresaglia per certi suoi versi contro la loro dominazione. Forse durante quel soggiorno compose queste sestine alla ridente frazione sangiovannese (che allora faceva Comune a sé).

" Siede Fuipiano sovra colle ameno

ricco di noci, di castani e pomi,

di campi e prati, di buon grano e fieno

ch'è come spezieria di mille aromi;

fecondo è pur di vacche e capre e agnelli

che danno buon butirro e formagelli.

 

La chiesa parrocchiale ben esposta

con campanile ed organo suonabili,

le case a mucchi in questa e quella costa,

o ben costruite o no, tutte abitabili,

di cui reina sovra lor s'estolle

quella che a Prato-Sotto sta sul colle.

 

D'acque perenni ha pur vaghe sorgenti

l'origine di cui si cerca invano;

vasche pei lavandai e per gli armenti,

canneti per zampogne al Dio silvano:

eccovi di Fuipian così in sommario

l'esatta descrizion e l'inventario".

 

Fuipiano, tutto sommato, nel secolo e mezzo trascorso da allora, non è mutato di molto: qualche edificio in più e, purtroppo, tanti campi in meno, per tacere di "butirro e formagelli" scomparsi. In compenso la "casa-reina" (bianca a strisce rosse secondo lo stile rimasto in voga dalle nostre parti sino ai primi decenni dell'Ottocento) rimane a far bella mostra di sé dal poggio aereo di Prato Sotto.

Ai piedi del quale, a Cabagino - ma sarebbe più corretto scrivere Cà Bagini (Cà Bagì, in dialetto) -proprio dietro il palazzetto Cavagnis, un minuscolo canneto continua ad offrire al giocondo e malizioso dio Pan il materiale per le sue pive.

Con la nostra rubrica abbiamo, stavolta, ecceduto un poco dall'ordinaria misura. Ma il lettore forse converrà che un filo di riguardo in più era ben dovuto all'autore delle "Rime Bortoliniane", il Ruggeri da Stabello per l'appunto. Del quale la nostra rassegna avrà probabilmente ancora modo d'occuparsi.

(1) Bortolo Belotti. ( "Poeti e Poemi del Brembo" - Bergamo 1931.)

 

 

CARLO CECCHIARI

Correvano ruggenti gli anni Venti, ma a San Giovanni, dopo la cruda parentesi della Grande Guerra, la vita era tornata a scorrere con ritmi d’agreste Belle Époque. Ad onta dell’industrializzazione (cartiera Cima), della ferrovia e delle centrali idroelettriche - per tacere delle «ltala» e delle «Isotta-Fraschini» che, rare, avevano cominciato a fare polvere sullo stradù -  il nostro paese (o cittadina, come taluno ama dire) rimaneva molto più sul «grosso e signorile villaggio e fra i migliori che si trovano in Valle Brembana», descritto dal Maironi Da Ponte («Dizionario odeporico» -1820), che non su ...beh, che non su ciò ch’è diventato al giorno d’oggi.

 

Naturale, perciò, che a Carlo Cerchiari, verseggiatore di scuola carducciana (del Carducci elegiaco di «Idillio maremmano» e «Davanti a San Guido»), esso ispirasse versi come questi:

 

«Ma appena il sole col suo raggio blando

 torna il vasto orizzonte a rifiorir,

anch’ei si placa e se ne va cantando,

con la voce che muore in un sospir.

 

Gli fan corona, su pei verdi clivi,

i  fratelli minori in faccia al sol...

limpidi e puri, scintillanti e vivi

i ruscelletti sgorgano dal suol.

 

Sulla piazza, che guarda il tempio grave,

il crociato guerrier superbo sta...

Spira d’intorno un alito soave

e lento il Brembo sussurrando va»

 

Il cav. Carlo Cerchiari, nato a Gorlago nel 1879, s’era stabilito a San Giovanni Bianco nel 1922. Sposato alla signora Anna Elio, pare avesse fondato una sorta di cenacolo poetico. Faceva il capostazione. Con i due coniugi, senza figli - almeno così consta dai registri comunali -, viveva una nipote, Maria, giovanissima. Il Cerchiari  - raccontano i vecchi - si fece benvolere e stimare. Sicchè quando, nel 1930, lasciò il nostro paese, lo rimpiansero un po’ tutti. Compreso - in spirito e... bronzo - Vistallo Zignoni che, grazie alle sue rime, s’era visto promosso da soldataccio di ventura al soldo di Francesco Gonzaga (condottiero della Serenissima), a compagno d’armi del pio Buglione, cantato dal Tasso.

 

Bernardino Luiselli , dal Bollettino Parrocchiale, 1992.